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13 maggio 2023
Corriere della Sera
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Il tatuatore dei vip e i loro tormenti:

«A Totti sconsigliai le iniziali di Ilary»

Nella bottega di «Unopercento» al Testaccio, dove lavora Francesco Cinti Piredda, tatuatore di Roberto Saviano, Edoardo Leo, Fiordaliso, Michela Quattrociocche, Ivan Zaytsev.  La lunga lista d’attesa: «Da me si confessano»

Su una vecchia poltrona da barbiere, una tela di pelle viva si sta facendo riempire d’arte. C’è Francesco seduto sullo sgabello, ogni tanto una parola di conforto per il cliente sofferente, martirizzato dagli aghi, eppur felice, in estasi, inebriato dal ronzìo. Guanti neri e sguardo da chirurgo, l’occhio del tatuatore studia il tratto, le linee, la sfumatura. La sua macchinetta romba che è un piacere. Guida sicuro, Francesco, con la mano morbida come il velluto, lavora seguendo il ritmo lento della musica che riempie il loft di Testaccio immerso nella penombra. È quasi l’alba. Ancora pochi colpi finali e l’opera sarà terminata. La sua nuova creatura: un demone orientale di donna che sembra urlare qualcosa dal petto dell’uomo, un cinquantenne professionista romano, su cui è stata appena solcata indelebilmente con l’inchiostro nero. «Ma è un demone buono, porta bene», ci tranquillizza il cliente stesso, ultrasoddisfatto. Il lavoro è finito. Francesco Cinti Piredda, 57 anni, già tatuatore della coppia ormai scoppiatissima Totti-Ilary Blasi ma anche di scrittori, attori e altri volti noti, Roberto Saviano, Edoardo Leo, Fiordaliso, Michela Quattrociocche, Ivan Zaytsev, si alza dallo sgabello per sgranchirsi un po’, accende una sigaretta e ne aspira il fumo fino a soffocare. Pensa a quello che gli ha detto giusto l’altro giorno al telefono il suo amico Orient Ching, tatuatore di Taiwan tra i più quotati: «Voi in Italia siete impazziti per i tattoo, siete diventati i primi al mondo, ormai avete 1-2 convention a settimana, il calendario del 2023 pieno zeppo di appuntamenti, Milano, Torino, Vicenza, Verona, Firenze, Carrara, Bologna, Palermo, Roma...».

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Nel paniere

 

Cinti Piredda dice che il suo amico di Taiwan ha ragione, «il tattoo è entrato ormai nel paniere dell’Istat, come un bene di consumo, c’è chi arriva addirittura a chiedere un finanziamento per farsi un tatuaggio, una follia, io però gente così la rimando indietro, perché è vero che il tatuaggio nasce da un bisogno vero, ma non sarà mai importante come il pane. Anche le mani, il collo, la faccia mi rifiuto di tatuarli perché poi diventa difficile trovare o conservare un posto di lavoro. Le persone ci restano male, se ne vanno via deluse, ma intanto penso di aver salvato la pelle a qualcuno». In tutti i sensi. Secondo una ricerca condotta un anno fa dalla startup berlinese Dalia Research il 48% della popolazione italiana oggi ha almeno un tatuaggio, siamo il Paese più tatuato al mondo, sopra la Svezia (47%) e gli Usa (46%). Ma già dopo appena un anno, secondo la ricerca, uno su quattro di coloro che si son fatti un tatuaggio se lo vorrebbe togliere dalla pelle, specie i ragazzini che lo vivono «come un capriccio — ragiona Cinti — condizionati dai social, dalle mode, dai personaggi come Chiara Ferragni, Fedez, Fabrizio Corona» e si fanno tatuare addosso di tutto, perfino i fantasmini di Snapchat.

Pentimenti 

Poi però si pentono i ragazzini e si pentono pure gli adulti, perché molto spesso il tattoo richiesto dai clienti porta impresso il nome del partner o le iniziali intrecciate della coppia, che è saldissima in quel momento ma poi come tutte le cose rischia di frantumarsi. «C’è una lista d’attesa lunga così dal medico mio amico presso cui li mando per farseli togliere col laser», racconta il tatuatore. E infatti lui — saggissimo e lungimirante — è il primo a sconsigliare ai suoi clienti di farsi incidere le iniziali dei partner: accadde pure con Francesco Totti, ma il Capitano a suo tempo fu irremovibile. E allora gli chiediamo: per caso ha telefonato anche lui, Totti, adesso che la storia con Ilary veleggia verso il divorzio, per farsi cancellare dagli avambracci ogni traccia della moglie? «No», taglia corto l’amico. 

Lui lavora solo di notte, uno tra cento, nella sua bottega che non a caso ha chiamato «Unopercento»: accoglie il cliente cui ha dato l’appuntamento, poi tira giù la serranda di via Ginori 9 e inizia un viaggio quasi introspettivo mentre il resto del mondo va a dormire. Qui non ci sono book da sfogliare, né tigri né uccelli né serpenti né fiori a buon mercato, nessuna fiera dell’ovvio, perché «l’album di foto da cui il cliente sceglierà il tatuaggio è quello che lui stesso già si porta nel cuore», dice Francesco. Cioè immagini, ricordi, suoni di una vita che alla fine diventeranno «il» disegno oppure «la» scritta fatta con la «Brush calligraphy», inventata da Cinti e figlia diretta dello «Shodo Giapponese», l’arte orientale di scrittura a pennello che trasforma l’ideogramma in un mistero illeggibile per tutti, eccetto per chi se lo fa scolpire addosso. Il tattoo esprime un bisogno, dicevamo. E a confermarcelo è proprio l’uomo che ha scelto di condividere la sua serata con noi: il cliente di Francesco si chiama Alberto Lauro, 50 anni, moglie, due figli, libero professionista e dice che il tatuaggio «è una terapia, c’è chi va dall’analista, io vado dal tatuatore». Lui ha metà corpo tatuata e l’altra no: «Infatti dove non ho tatuaggi mi sento nudo», chiosa. Confessa di essere anche un po’ «esibizionista» e di spogliarsi al mare volentieri. Ma la tortura degli aghi anzi per lui è «un piacere pur senza essere masochista», perché «la tela sono io — spiega — e purtroppo non è infinita». Alberto si fece il suo primo tatuaggio dieci anni fa quando morì la madre. Ne avvertì il «bisogno», racconta. Era «mamma» la scritta che avrebbe voluto farsi tatuare inizialmente da Francesco. «Ma quella — aggiunge Cinti — sarebbe stata una scritta dolorosa, invece insieme abbiamo parlato a lungo e alla fine abbiamo trovato un altro modo, un’altra scritta che solo Alberto sa leggere e quando la legge sorride sempre». Quante cose succedono di notte, sospira Francesco, che si sente un po’ «il sarto» di tutta questa pelle in giro da vestire. A Testaccio si ricordano ancora del signor Cesare che una sera a 78 anni bussò alla serranda di via Ginori per farsi tatuare sulla schiena la scritta: «La vita è bella... ma corta». Anche Cinti ha il suo tatuaggio e il suo tormento: se lo fece fare in Giappone dieci anni fa e non è ancora terminato, è un cucciolo di Foo Dog, il leone cinese, che gioca con dei passerotti in volo. C’è tanto dolore dentro: il nonno Franco, che non c’è più, chiamava lui e suo fratello da bambini «i miei passerotti».

Psicobiografia

Il criminologo Vincenzo Mastronardi nel libro I segreti dei tatuaggi criminali, uscito nel 2021, parlando della «sindrome dell’uomo illustrato» scrisse che il tatuaggio è «un mezzo di affermazione personologica per vincere il rischio dell’autodisistima». E fece l’esempio di un detenuto tutto tatuato: «Un serpentello sul pene, una lettera alla madre sulla spalla sinistra, il volto della fidanzata su quella destra. In pratica, una psicobiografia incisa sulla pelle. È come se grazie a quei tatuaggi lui dicesse: io non sono il numero della mia cella, io sono la tigre, il serpente che ho su di me. Non sono un corpo ma un uomo con la sua storia». Ognuno ha la sua storia e il suo bisogno, il suo buco da riempire in ogni modo, con le lucertole e i gechi tribali o i simboli maori polinesiani o ancora i teschi, le croci, le ragnatele, i volti di Gesù Cristo e di Maradona, i testi delle canzoni e i motti della X Mas. E intanto il business cresce a dismisura. Con il mercato nero — tattoo a 15 euro fatti da principianti — e gli studi famosi, dove i costi lievitano ma ogni piccola mossa ha il suo perché: le vaschette col colore, la pezzetta umida, le creme giuste per il dopo, un’attenzione quasi maniacale per la salute e l’igiene (Cinti fa fare ancora oggi il tampone anti Covid a chi entra). Insomma, tatuaggi prêt-à-porter e tatuaggi di sartoria, però sempre in numero dispari sennò porta male, secondo la tradizione. In passato era roba per marinai, carcerati, figli di nobili e frati, ma ormai il tattoo è diventato di tutti e sono circa 6 mila le attività specializzate in tatuaggi e piercing secondo i dati 2022 di Unioncamere. L’esplosione c’è stata dopo la pandemia, dopo le chiusure, dopo i nostri 180 mila morti. «In tanti — racconta Francesco — corsero a farsi tatuare come per dirsi: io ci sono ancora, io esisto, malgrado tutto». Basta così. È ora di tirar su la serranda. Un’altra notte di tatuaggi è passata, i demoni buoni dipinti sulla carne del suo cliente se ne vanno anche loro a dormire. Alberto Lauro al momento dei saluti ci confessa di essersi fatto togliere da Cinti una geisha che aveva sulla schiena e di averla sostituita con un airone. Oggi va molto meglio, dice, si sente più felice. Lo speriamo per lui. Perché il tatuaggio dopo tutto è una ferita che uno si porta addosso e non sempre le ferite guariscono, anzi quasi mai.

Fabrizio Caccia

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